Stupro. La violenza dei tribunali

A Torino l’ennesima sentenza in un processo per stupro, dove un giudice ha assolto un uomo, negando la validità di una chiara prova materiale, ha riportato al centro della pubblica attenzione dinamiche processuali in cui la donna che denuncia la violenza viene trasformata in imputata.
La dichiarazione della ragazza, i suoi abiti strappati sono stati giudicati insufficienti dalla corte di appello di Torino, che ha cancellato la condanna inflitta in primo grado, facendo leva sui vestiti indossati, sui bicchieri bevuti, sulla porta di un bagno soltanto socchiusa, sulla qualità della cerniera dei suoi jeans, così debole da cedere alla prima pressione. Debole come le donne che, si sa, dicono no ed intendono si. Queste argomentazioni dimostrano che l’approccio patriarcale è ancora fortissimo nelle aule di tribunale, dove da soli 26 anni lo stupro viene “pesato” nella bilancia della “giustizia” come crimine contro la persona e non come “reato lesivo della moralità” dei maschi di famiglia. Sentenze come quella di Torino non sono rare e ci raccontano di un retaggio di dominio e negazione dell’autonomia alle donne che è ben lungi dallo scomparire. Le donne sono trattate alla stregua di deboli fuscelli che recitano la propria ritrosia per convenzione sociale. In questa prospettiva i tribunali continuano a mettere alla sbarra le donne stuprate a considerare il loro parole con sospetto. Al punto che neppure un abito strappato è il segno della violenza, ma un mero incidente di percorso. Lo stupro per essere considerato tale richiede il martirio, le carni lacerate, il sangue. Maria Goretti che muore per restare vergine è credibile, non una ragazza che va al bar, si ubriaca, tiene la porta del bagno socchiusa e dice no. Questa se l’è cercata. Parola del tribunale di Torino.
Basterebbe questa vicenda per mostrare come nei tribunali alberghi molta violenza e, certo, nessuna giustizia. La partita, quella vera, si gioca per le strade, nella vita quotidiana, dove è necessario rinforzare le reti transfemministe, per far si che la paura cambi di campo.

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